Ecco la seconda puntata della rubrica di approfondimenti sull'arte "La nostra pinacoteca" a cura di Francesca Mellone che vuole rivelare il contributo di alcune artiste nella storia dell'arte e dell'immaginario estetico.
Continua il viaggio alla scoperta de "Le signore del Cavaliere blu" con un focus su Marianne von Werefkin (Tula 1860- Ascona 1938).
“Sono un’artista. La mia arte che avevo riposto per amore e rispetto torna a me più grande che mai. Chi eri dunque? Un’apparenza che ho adornato di penne di pavone”
Sono parole che Marianne von Werefkin rivolge, dopo la fine di una lunga e tormentata relazione, al pittore Alexey Jawlensky, ex ufficiale russo naturalizzato francese, alla cui affermazione si era interamente dedicata rinunciando per dieci anni a dipingere, convinta di dover coltivare soltanto il “genio” del suo egoista e infedele compagno.
Più tardi avrebbe ammesso l’errore: “Gli ho mostrato il mistero dell’arte, ma non notava nulla. Non era colpa sua, ognuno dà quel che può... Prese quello che poteva prendere, ed era riconoscente, come poteva...”.
Artista straordinaria, Marianne nasce a Tula, nella Russia zarista, da una famiglia benestante e aperta alla cultura (padre generale e madre pittrice), che la sprona a coltivare il proprio innato talento artistico. Studia a San Pietroburgo presso la bottega di Ilya Repin, noto pittore realista, ma dopo una ferita alla mano destra, procuratasi in occasione di una battuta di caccia, è costretta ad abbandonare i virtuosismi legati a quello stile, per avvicinarsi agli orientamenti - anti-positivisti, anti-naturalisti e anti-impressionisti - delle avanguardie europee.
Marianne ha trentadue anni quando, nel 1892, incontra Alexey Jawlenshky, col quale inizia una burrascosa relazione, segnata da tradimenti subiti e rinunce. Con lui, si stabilisce a Monaco nel quartiere di Schwabing.
Il suo acume e la sua personalità sostenuti da letture aggiornate, specie sui movimenti simbolisti, artistici e letterari, ma altresì su temi scientifici, fanno sì che la sua casa diventi il fulcro di accesi confronti e discussioni tra i numerosi intellettuali che la frequentano. Le sue idee, la sua ricerca e la sua preparazione anticipano le teorie estetiche di Kandinsky (anche per quanto concerne l’astrattismo, sebbene la sua pittura rimanga sempre nell’alveo del figurativo) e quelle di Worringer sull’empatia. Lo dimostrano le “Lettres à un inconnu”, scritte dal 1901 al 1905, che rappresentano una fonte inesauribile di riflessioni filosofico-estetiche, nelle quali l’autrice confida a un immaginario interlocutore la sua tensione verso un’arte nuova, capace di conciliare l’individuo col mondo, il visibile e l’invisibile, il sensibile e il trascendente.
Dal 1907, dopo dieci anni di inattività, Marianne torna a dipingere. Le opere del periodo raggiungono una felice sintesi tra Espressionismo e Realismo magico, memore quest’ultimo di un retroterra culturale e ideologico, quello russo, volto a un’arte con funzione educativa.
Risale a questi anni una serie di paesaggi inseriti in grandiosi sfondi alpestri, talora dalle tinte intense e brillanti (blu, verdi, viola e gialle), talora percorsi da cupi incanti. L’umanità che vi compare - pastori, suore che, simili a formiche, si inerpicano lungo il sentiero della Via Crucis, lavoratori che fanno ritorno a casa, donne cariche di provviste, insomma i ceti popolari - appare sovrastata, eppure in armonia con essa, da una natura magnifica nella sua imponenza.
Nel 1911 Marianne aderisce a Der Blaue Reiter (il cavaliere Blu) fondato da Wassily Kandinsky, Franz Marc e Gabriele Münter, con la quale instaura un rapporto di profonda amicizia e collaborazione.
Artista originale, visionaria e di immensa inventiva, Marianne sa trasformare: momenti, gesti, rituali, figure del quotidiano in allegorie con il ricorso a uno strabiliante assortimento cromatico; si pensi a Autoritratto ( 1910) o a La sentinella ( 1914).
Su Il cenciaiolo (1917) vale forse la pena soffermarsi per l’ipnotismo esercitato su chi osserva. Vi appare un vasto paesaggio, retro-illuminato da bagliori apocalittici: montagne nere, blu e viola sono come percorse da un movimento ondulatorio, mentre verdeggianti colline emergono dalle acque stagnanti di un lago. dove una piccola barca bianca è affidata a se stessa, mentre la sagoma scura del cenciaiolo, posta in primo piano, sembra compiere la danza di chissà quale rituale apotropaico.
Espulsa nel 1918 dalla Germania in quanto russa, Marianne si rifugia in Svizzera, prima a Zurigo e in seguito ad Ascona; in quello stesso anno si separa da Jawlensky, a causa della relazione che egli instaura con una giovane cameriera dalla quale avrà un figlio e che sposerà.
Caratterizza questa fase l’attenzione riservata all’ambiente urbano, che in La vita e la morte (1922) è inserito, con i suoi edifici dalle facciate ocra interrotte da finestrelle marrone, in una prospettiva sghemba, tesa a trasmettere un senso di minacciato equilibrio.
Sulle rive del Verbano, attraversata da tensioni mistiche, Marianne trova una pace insperata, tanto che in un suo scritto del 1928, si definisce “asconese”: lei vagabonda e con l’universo nell’animo.
Muore in solitudine e povertà nel 1938.
Continua...