L'articolo di Annalisa Camilli apparso su Internazionale con il titolo Perché ci sono pochi corsi di studi femministi nelle università italiane ci stimola a riconoscere i cambiamenti in atto e a rilanciare la scommessa culturale e politica aperta, per tutti, dalla rivoluzione femminile-femminista. Come la Scuola di alta formazione intende fare. Al di là dei vincoli -immaginari o reali- dell'attuale istituzione universitaria, delle etichette con cui si veicolano nuovi contenuti aggiuntivi (Gender-Queer Studies), di proposte di parità soprattutto se calate dall'alto. Perché è il modo di agire la propria libertà con le forme del sapere, nella ricerca e nella docenza, che può costituire un cambio di prospettiva a tutto campo. Per questo rilanciamo la scommessa e pubblichiamo un articolo a firma Muraro-Piussi apparso molti anni fa, ai tempi di un governo di centro-sinistra.
Prof.ssa Anna Maria Piussi
Università: più donne che uomini.
Ma il governo pensa a "ghetti rosa"
di Luisa Muraro e Anna Maria Piussi (1996)
"Abbiamo cancellato i "lavoro femminili" dalla scuola. Ora vogliamo gli "studi femminili"? Le vere opportunità non sono pari ma dispari."
La qualità del linguaggio è un sintomo dal quale non si scappa. E il linguaggio della politica "femminista" del governo, dispiace dirlo, è brutto. Pieno di gergo e di formule. Che cosa significano, per esempio, gli studi di genere sulle pari opportunità (parole attribuite dai giornali alla ministra Laura Balbo)? E pieno di nomi per iniziative che tali non sono: monitoraggi, contatti permanenti, gruppi di lavoro, commissioni, reti, e tutto l'armamentario che si mette all'opera quando ciò che si vuol portare di nuovo è poco. Al brutto linguaggio corrisponde in effetti una politica debole, che imita cose distanti, ignora le risorse vicine e non si misura con le contraddizioni.
Parliamo dell'università. L'università è soggetta, in questi anni, a due trasformazioni. La prima riguarda soprattutto il corpo studentesco, diventato prevalentemente femminile. Questa trasformazione riflette e insieme anticipa quella del corpo sociale, che vede le donne sempre più istruite e autonome. Non è solo una questione di numeri, ma l'esito vittorioso di una pacifica scommessa di donne in favore delle lettere e della civiltà dei rapporti. Scommessa molto antica, risale infatti ai tempi della civiltà cortese, e rinforzata dalla più recente rivoluzione femminile. La chiamano così, e perché no? Hannah Arendt ci invita a non escludere la rivoluzione dal nostro linguaggio politico.
L'altra trasformazione è dovuta a una riforma voluta da più parti ma di fatto diretta da pochi e dall'alto, seguendo una linea apparentemente sensata ma poco entusiasmante che è di dare alla nostra università un ordinamento più vicino a quello delle altre università europee. D'accordo, abbiamo l'euromoneta, facciamo anche l'eurouniversità purché non sia al ribasso, come invece capita se copiamo gli altri nel loro meno e restiamo noi stessi nel loro peggio.
Prendiamo la riforma degli insegnanti. Tutto indica che andiamo verso un curriculum degli studi che vuol essere più razionale e forse lo sarà, a prezzo però di limitare la libertà di ricerca e di insegnamento (e di apprendimento).
Ora, è proprio grazie a questa libertà che gli studi femministi in Italia sono andati avanti con risultati buoni e talvolta eccellenti, a seconda delle persone e anche delle discipline. Infatti vi sono discipline che di più altre sono state toccate dalla rivoluzione femminile: pensiamo alla vasta area delle ricerche storiche, alla filosofia, alla teologia, alla letteratura, alla psicologia, all'antropologia, alla pedagogia, al diritto, alla medicina…
L'Italia, così come la Francia, non ha istituito corsi di laurea e settori disciplinari del tipo "Women's Studies". Non si tratta di un ritardo, come qualcuno può credere. E' stata una scelta precisa, condivisa dalla maggioranza delle docenti (non da tutte) e delle studenti. Abbiamo pensato che in un sistema universitario che pratica la libertà di ricerca e di insegnamento, non è necessario istituire studi femministi separati, in quanto le nuove idee entrano nell'università attraverso le scelte scientifiche e didattiche delle/dei docenti. Come di fatto è avvenuto da più parti, in questa o quella università, a Lecce, Verona, Bologna, Torino, Napoli, Siena, Padova, Firenze, Roma, Bari, Roma, Milano… Non è necessario e neanche opportuno, se quello che il femminismo ha significato è un senso libero della differenza sessuale, che riguarda donne e uomini, e può ripercuotersi in tutti i campi del sapere, dentro e fuori l'università. Anche a ciò si deve se la cultura femminista in Italia, a differenza degli Usa, come notava su queste pagine Maria Nodotti, non si è mai chiusa nello specialismo accademico, ma ha continuato a circolare dentro e fuori l'università, con uno scambio che ha giovato alla ricerca come alla politica delle donne e alla cultura nel suo complesso.
Ora ci troviamo davanti alla contraddizione di un pensiero nuovo com'è quello delle donne, che ha bisogno di svilupparsi liberamente, e di una riforma dell'università forse necessaria ma diretta dall'alto e in qualche misura limitatrice della libertà. Davanti a questa contraddizione, che non è stata affrontata come si doveva, lo diciamo in senso autocritico, i responsabili della politica danno come risposta, se così possiamo chiamarla, di inserire ne nuovo ordinamento disciplinare alcuni "insegnamenti al femminile" (sic). E' uno scambio inaccettabile: Prima di tutto perché toglie al sapere femminile la possibilità di un confronto più largo possibile. Lo si fissa in un paio di etichette che gli assicurano di durare, sì, ma alla condizione di stare confinato in un ambito specifico, cosa che potrebbe rivelarsi un ghetto ed essergli fatale. La rivoluzione femminista (chiamatale come volete) ha agito in tutt'altro senso, cioè nel senso di dare un significato libero e universale al fatto di essere donne. Abbiamo cancellato i lavori femminili dalla scuola e ora chiediamo insegnamenti femminili all'università? E' ridicolo.
Fin troppo. In effetti capita fin troppo spesso che il ridicolo femminile copra una miseria maschile, ed è questa allora che dobbiamo mettere in evidenza. Nello schema della politica governativa le donne si presentano come questuanti per qualche posto o qualche insegnamento. La ministra delle Pari opportunità sottolinea la scarsa presenza di donne nel corpo docente. Il fatto è vero, però bisogna spiegarlo. Lavorare all'università non è un diritto e quindi non è una questione di pari opportunità. All'università lavorano le persone che eccellono nella ricerca e, se possibile, nell'insegnamento, e che sono state selezionate pubblicamente con questi criteri. Allora vuol dire che, tra le donne più che tra gli uomini, difettano le qualità richieste? Che le donne non hanno la capacità, o il gusto della ricerca, di scrivere, d'insegnare? E' giusto il contrario. Il problema nasce proprio da qui, che le donne si presentano all'università con il loro amore per gli studi, con la loro capacità di investigare e di comunicare, e gli uomini invece, il più delle volte, anche (e a volte soltanto) con il loro bisogno di gerarchia, la loro coazione alla carriera, il loro gusto del potere. E prevalgono sulle compagne di studi e sulle colleghe grazie ad un sistema di selezione che non premia mai soltanto, né soprattutto, i migliori, ma sempre anche i servilismi, le cordate, le cooptazioni, gli intrighi e le finzioni di concorso. E attraverso tutto questo, residui di patriarcato, che non possono scandalizzare: l'università non è forse, storicamente, una creatura maschile? Ma che bisogna tener presente, se non vogliamo fare le vispe terese.
A questi livelli non ci sono ricette facili e non si può pretendere sensatamente, che un governo le tiri dal cassetto fuori belle e pronte. Tanto meno se c'entrano i rapporti tra donne e uomini. A questi livelli non si può operare senza passare attraverso il conflitto, come dimostra la recente quanto profonda trasformazione dei rapporti personali donna/uomo. Questi trent'anni di femminismo hanno insegnato che il conflitto tra i sessi, ci piaccia o no, è necessario al cambiamento.
Il punto è proprio questo, che non si può fare politica femminista, come pretende di fare il nostro governo (e quello dell'Europa) senza una pratica del conflitto tra i sessi, e questo a partire da sé, cioè a cominciare dalle donne e dagli uomini che hanno cariche di governo. Non si può proporre una politica universitaria favorevole alle donne se non come risposta ad un conflitto aperto dalle interessate per cambiare il modo di lavorare e di stare all'università. Conflitto che per ora esiste solo allo stato latente, così come latita tra le donne e gli uomini al governo. In queste condizioni non si trovano le idee giuste e mancano le energie necessarie. In queste condizioni la politica che vorrebbe essere femminista diventa, per le donne, una politica umiliante.
E allora, niente. Oh, no! Allora si riveda lo schema basato sulle pari opportunità, per quel che riguarda le donne (come in passato aveva detto di voler fare la ministra Finocchiaro, e all'inizio anche l'attuale ministra, se ricordiamo bene). E si lasci perdere il femminismo di stato (il femminismo "ope legis") in favore di una politica che riconosce il "di più" femminile e se ne fa forte. Va detto che questa è, da qualche anno, la politica delle aziende più furbe o, semplicemente, più attente alla realtà che cambia, e dotate di quella spregiudicatezza che resta il grande titolo della ragione capitalistica. Con il "di più" ci riferiamo a tutto quello che le donne stanno portando di grande e importante nella vita sociale con lo slancio della loro voglia di esistenza libera e personale. Le vere opportunità, in effetti, sono sempre dispari. Insomma, bisogna andare, mentalmente e praticamente, oltre l'uguaglianza e se questa cosa ci fa paura, rendiamoci conto che ci siamo già.