di Sandra Morano, tra le Fondatrici della Fondazione Scuola di Alta Formazione Donne di Governo
C’è qualcosa in comune tra le parole di Emma Ruzzon, la studentessa presidente del consiglio degli studenti, durante l’inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Padova, e quelle delle donne che si sono dimesse dai più alti uffici pubblici. Questo discorso, insieme alle recenti dimissioni della prima ministra Sturgeon in Scozia, e, ancor prima, quelle della sua omologa Jacinda Ardern in nuova Zelanda, significano, anche se con tonalità diverse, un NO senza appello ad imperativi patriarcali, a strategie di successo indicate come infallibili, a meriti ignorati da governi e istituzioni formative che non hanno più nulla da offrire, soprattutto al mondo giovanile.
Che l’Italia non fosse un paese per giovani lo sapevamo da tempo, tanto più che oggi la parola “giovani” insieme a lavoro, sanità e istruzione, è scomparsa dai programmi elettorali di tutti i partiti. Una afasia che sarà difficile recuperare in tempi brevi. Per cui non basta avere una premier giovane e donna, e tanti suoi coetanei nei posti chiave al governo.
Negli ultimi decenni, si registra come le donne hanno mostrato una capacità performante addirittura superiore a quella degli uomini, ma spesso hanno fatto di tutto per imitarli per arrivare al successo e al potere, ignorando che il tradimento delle altre donne e di sé non paga. Le cifre dell’avanzata delle donne leader sono stabili da almeno due decenni e, laddove i tetti di cristallo vengono infranti, gli effetti di questa avanzata non sembrano aver modificato, se non in rare eccezioni, il linguaggio e le pratiche del management attualmente in uso. Il modello performante è così pervasivo da lasciare le donne che hanno passione e competenza sole in mezzo al guado, perennemente incerte tra sviluppare solidarietà verso le compagne di strada e la prassi consolidata, che fa brillare le luci lontane di posizioni da conquistare.
Allora, dopo la demonizzazione e il rifiuto di parole chiave come famiglia, cura, differenza, in nome della parità e della “realizzazione di sé”, come interpetrare il “gran rifiuto” di politiche di lungo corso come la Sturgeon e la Ardern?
In realtà, non si tratta di rifiuto, ma di un bilancio a valle di un percorso compiuto pienamente con sacrifici e successi: non una perdita, dunque, ma una svolta. In tutt’e due i casi le parole usate sono il riconoscimento (Sturgeon), e il bisogno (Ardern) di essere umane, cioè se stesse. Gli affetti, la cura, la propria vita come ricompensa dell’abbandono della posizione e della notorietà? Non sappiamo quale sentimento tra i tanti abbia prevalso nella mente di queste premier, aldilà delle versioni ufficiali. Non possiamo ancora prevedere se questi sono episodi isolati o apriranno nuove strade. Di sicuro però possiamo affermare che qualcosa si è rotto. Non nella capacità /desiderio delle donne di affermarsi nella politica istituzionale, oggi che la strada comincia ad essere più praticata e praticabile. Piuttosto si è rotto il loro rapporto con un mondo che fagocita le migliori energie. MI piace immaginare che anche altre donne delle giovani generazioni abbiano l’occasione di guardare più alla vulnerabilità che ai superpoteri. Mi piace pensare che le due premier dimissionarie abbiano sentito la necessità di ritrovare “la ragazza che ero, la riconosco” (Syzmborska), e si siano riconciliate con lei. Che ritrovino anche le nobili ragioni che le avevano portate così in alto, e che le possano trasmettere alle donne, alle studentesse, alle madri, alle nuove attiviste pronte per le eterne battaglie per la giustizia. Speriamo anche si avverino le parole che Emma Ruzzon, da Padova, lancia idealmente al mondo: un vero programma politico perché si consolidi l’autorità femminile al governo.